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R: [RUGBYLIST] Morte D'Avanzo

Piero Filotico pierofilotico a alice.it
Mar 2 Ago 2011 00:02:46 CEST


Tra le più belle cose che ho letto sul rugby. Anche per questo sentirò la
sua mancanza. Ciao Peppe. 


Il rugby per salvare l'Italia


Noi appassionati del rugby - diversi e un po' sfigati come può esserlo in
Italia chi non ama il calcio - abbiamo un sogno: vedere l' 8 settembre a
Marsiglia, quando l'Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio
dei Mondiali, il premier, il leader dell' opposizione. Perché no?, il capo
dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di
guidare il Paese. Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che
l'Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di
guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani». 

 

Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l'Italia. È un mistero
inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa
si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche
del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo. Dalla sua,
il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con
quest'impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io
sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che,
per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di
quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne
conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da
psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va
fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi
sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è
chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l'
accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby. 

 

Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e
giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L'omogeneità
dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare
l'immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere
continuamente nello spazio altrui. Il fatto è che faccio molta fatica a
vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d'Avignon di Picasso
l' di una "linea trequarti", nella certezza che non si possa trattare di un
"pacchetto di mischia" (gli "avanti" hanno troppo da fare là sotto per
essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano. 

 

Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d'Automne, il rugby
era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che
uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d' irlandese di William
Webb Ellis - nel Bigside della "pubblic school" di Rugby - di afferrare la
palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823.
Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel
terzo decennio dell' Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza
- mi pare - è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua
fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel
1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione. 

 

Il Paese - il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia - è
"l'officina del mondo", un vortice impetuoso di scienza, tecnologia,
industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche
demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne
e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in
movimento in quegli anni divide più che unire. Nella grande Isola, scrive
Benjamin Disraeli, ci sono "due Nazioni": «Non vi è comunità in Inghilterra.
Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio,
due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui
qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci). 

 

Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni
comuni, l'urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi,
medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano - sì - lavorare con
efficienza, ma siano anche consapevoli dell' interesse pubblico e dotati di
"buone maniere". In questo bisogno prende forma l'idea di Thomas Arnold,
preside della Rugby School, l'autentico padre del gioco, al di là del mito
fondativo che fa di William Webb Ellis l'eroe. Egli immagina un nuovo
modello educativo fondato su una "cristianità energica", sul servizio alla
collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una
formazione innervata da valori che, senza rallentare "l'officina del mondo",
cancelli la frattura che si è creata tra le "due Nazioni" con il rispetto e
la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più
"inconciliabile", ma condiviso. (Quanto questo sia necessario - oggi - all'
Italia è inutile dire). 

 

Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in
questa missione. Il corpo lo si può dire veramente "formato", conclude,
soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale.
Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della "formazione
morale". Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la
sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta
con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si
insegna a rispettare l' avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad
accettare serenamente e senza alibi l'esito della competizione. Una partita
- soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby - apre il solco
entro cui si definisce un ethos, un'idea di gentleman, un modo di stare al
mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare forza d' animo,
coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di
quella etica del fair play, che trova il suo slogan nell'esortazione
vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo. 

 

Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una
retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le
regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai
gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non
se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco
né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva,
governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di
"follia", di "caos", di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il
rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne)
contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla
palla, in gara per conquistare l'area di meta e schiacciarvi l'ovale. 

 

Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme.
Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua
squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato
nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l' apparenza, è l'esatto
contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori,
mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario,
impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere,
invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato;
paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. 

 

Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l'odio è paura cristallizzata,
odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica.
Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l'arroganza del
prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere
schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella.
Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby
(valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con
quella specificità italiana che glorifica l'ingegno talentuoso e non il
metodo. La furbizia e non la lealtà. L'inventiva e mai la preparazione. Il
"miracolo" e mai l'organizzazione. L'individualità e mai il collettivo. Il
caldo piacere autoreferenziale del "gruppo chiuso" e mai il desiderio di
farsi stimare da chi al "gruppo" (ceto, famiglia, corporazione) non
appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se
sconfitto, è l'ammirazione che suscita nell' avversario. Il rugby - la
comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine
- spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e
le debolezze del nostro stare insieme. 

 

Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo
all'identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per
riformarla. L'appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l' 8 settembre. Le
prenderemo, ma non importa. Play up and play the man! 

 

Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 2007

 

Da: 

http://www.valigiablu.it/doc/458/giuseppe-davanzo-e-il-rugby-per-salvare-lit
alia.htm

 

Da: rugbylist-bounces a rugbylist.it [mailto:rugbylist-bounces a rugbylist.it]
Per conto di Gaetano Palmiotto @ fastweb
Inviato: domenica 31 luglio 2011 20:34
A: 'list'
Oggetto: [RUGBYLIST] Morte D'Avanzo

 

Visto che non lo ha fatto nessuno, voglio ricordare Giuseppe D’Avanzo,
giornalista di Repubblica, prematuramente scomparso ieri mentre biciclettava
tra Roma e Viterbo.

Oltre ad essere considerato uno dei più grandi giornalisti d’inchiesta di
sempre, D’Avanzo era anche un rugbista (ex, ma come ci diciamo tra noi uno è
rugbista per sempre) e per questo motivo voglio ricordarlo su questa list.



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