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[RUGBYLIST] la stranezza del rugby?

Giovanni Cardeti gcardeti a yahoo.it
Gio 8 Feb 2007 13:07:13 CET


Concordo dalla prima all'ultima parola. 
  Questa contrapposizione con gli altri sport e con il calcio in particolare la trovo assolutamente stupida, oltre che realmente antipatica. 
  Il rugby è il rugby ed il calcio è il calcio (tra l'altro pur seguendo da 25 anni il rugby anche gli altri sport non mi dispiacciono) per cui esaltare continuamente i valori, lo spirito, l'ambiente del nostro sport lo trovo fuorviante oltre che estremamente provinciale.
  In effetti questo atteggiamento è molto conforme alla nostra società attuale in cui l'apparire è la cosa prioritaria rispetto alle altre, dove le cose si fanno non per il piacere di farle ma per fare vedere che si sono fatte.
  Mi ricordo che quando ero ragazzetto (si parla di molti anni fa) qualche giocatore italiano di grido parlava di 2 categorie di giocatori: quello che gioca a rugby per il piacere di farlo (e quindi un piacere ASSOLUTO che non trova un maggiore riscontro nel coinvolgimento o nel farlo vedere a qualcun'altro) e chi gioca a rugby per dire IO GIOCO a rugby.
  Questo volere apparire al di sopra degli altri sport mi sembra simile a quest'esempio: non dobbiamo necessariamente convincere gli altri della bontà del nostro gioco, ma solo goderne fino in fondo (e possibilmente a piccoli sorsi) tutte le emozioni che ogni volta riesce a trasmetterci.
  E le emozioni sono provocate da una bella vittoria di prestigio o da una prestazione all'altezza delle aspettative.
  Un ultima annotazione: in tanti anni di rugby spesi nei vari campionati italiani, le situazioni viste in alcuni campi minori (ma non solo minori) sparsi nella penisola italiana fanno pensare a tutto meno che al fair-play, con insulti e quant'altro che sono all'ordine del giorno, per cui spesso tutto questo pavoneggiamento non ha purtroppo neanche un riscontro reale.
  Giovanni.
  
Valerio Vecchiarelli <v.vecchiarelli a libero.it> ha scritto:
          Puntualmente quando nel calcio ci scappa il morto (ma forse da noi morto è proprio il mondo del pallone) il rugby diventa la faccia pulita della medaglia, quella bella, in cui, udite udite, i giocatori si salutano a fine partita, mangiano insieme, la gente va allo stadio per divertirsi e non per ammazzarsi, ci sono le donne e i bambini, si cantano gli inni, si applaude l'avversario, si fa la ola anche quando si perde 39-3, si incoraggiano i propri negli ultimi minuti di una partita persa da sempre, si aspetta l'arbitro che guarda la moviola e non si fanno processi infiniti alla moviola, Wilkinson segna una meta irregolare e tutti, avversari compresi, non fanno che restare estasiati dalla bellezza di quella meta che non doveva essere assegnata. E allora, dopo la batosta che ci hanno rifilato i signori d'Oltralpe, sui nostri giornali si è parlato più della stranezza che si respirava al Flaminio, della tranquillità del pubblico, del fatto che non esistano
 settori-gabbia per i tifosi ospiti, della polizia che guarda la partita e non gli spalti!. E le domande fatte ai Vip della tribuna d'onore (Veltroni solo per un tempo, Melandri, Petrucci, etc. etc.) erano tutte sullo stesso argomento, sulla "irrealtà" della situazione, su come sia strano andare allo stadio solo per vedere una partita e magari divertirsi... La coincidenza con la giornata nera del calcio ci ha aiutato a sorvolare sulla batosta rimediata in campo, così il rugby ha vinto. E l'Italia, quella che deve difendere l'azzurro per 80 minuti, ha perso. Eccome se ha perso. Ho visto gente del rugby contenta, gratificata da questa diversità, come se ogni volta fosse indispensabile stare lì a ribadire che noi siamo più belli, più bravi, più buoni.
  Sinceramente ho sempre pensato che gli strani siano gli altri e nel tempo mi sono convinto che il grande limite del rugby di casa nostra sia proprio quello di credersi un'elite, una roccaforte di valori inespugnabile, una cosa tutta nostra che ci rende belli agli occhi del mondo sporco e cattivo. Non se ne può più, perché non è strano andare allo stadio senza il desiderio di ammazzarsi, non è splendido non pensare che l'arbitro sia sempre in malafede, non è eroico salutare l'avvrersario che ti ha battuto sul campo, non è unico permettere alle donne e ai bambini di partecipare a un evento sportivo, non è incredibile lottare fino all'ultimo minuto di una partita persa. Finché staremo qui a sottolineare questa diversità ci riempiremo di falso orgoglio per una cosa che è normalità. Questo è lo sport, è come parlare di quanto sia educato un bambino di seconda elementare che la mattina non manda affanculo la maestra che gli ha chiesto di non parlare con il vicino di banco. E lo
 premiamo pure, perché tanto gli altri o la mandano direttamente affanculo o ci pensano i genitori per lui. Ma chi è lo strano? Il fatto è che si è spostato il limite della normalità. E dell'educazione.
  Voglio vedere se dopodomani a Twickenham i giornalisti inglesi sprecheranno una riga per parlare del fatto che allo stadio non ci saranno stati incidenti, che la gente ha cantato e, magari, applaudito una bella azione dell'Italia. E guardate che saremo nella terra degli hooligans, dei deliqnuenti da stadio, del tifoso che l'altro ieri solo per aver sbeffeggiato il portiere della squadra avversaria si è beccato 4 mesi di galera senza condizionale. Quando potremo parlare di rugby, di situazioni di gioco, del perché gli altri viaggiano a una velocità diversa dalla nostra, allora sì che saremo cresciuti e che avremo affermato la vera diversità di uno sport. Perché poter andare allo stadio senza la paura di rimanerci per sempre non è un fatto eccezionale. E' la pura, semplice, normalità.
  Scusate per la lunghezza.
  Ciao e con chi ci sarà ci vediamo a Twickenham. Una pinta a chi si fa riconoscere.
  Valerio
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