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[RUGBYLIST] Dal Gazzettino (7 marzo 2010)

Angelo Volpe a fast volpe_angelo a fastwebnet.it
Lun 8 Mar 2010 17:12:11 CET


 

IL GAZZETTINO 

7 MARZO 2010 

 

 

 

La vera storia

del match-leggenda

"INVICTUS"

Nel film di Clint Eastwood

l'incontro di rugby

che cambiò il Sudafrica

IL "GIALLO"

Il caso del misterioso

avvelenamento ai danni

di Francia e All Blacks

Antonio Liviero

 



A tre mesi dai mondiali di calcio in Sudafrica, arriva nelle sale "Invictus", il film di Clint Eastwood che celebra il mito fondativo della nazione arcobaleno: la Coppa del mondo di rugby che si disputò 15 anni fa nel Paese appena liberato dall'apartheid. E la squadra degli Springboks, emblema del potere bianco, odiatissima dai neri.
      Nel '95 Nelson Mandela era da poco presidente del Sudafrica e la democrazia compiva i suoi primi difficilissimi passi. I bianchi temevano vendette, negli uffici pubblici riempivano gli scatoloni per traslocare. La popolazione nera aspettava un lavoro e uno stipendio che la togliesse dalla povertà e dall'emarginazione. Ma non c'erano risorse. Il Sudafrica era sull'orlo di una guerra civile.
      Gli Springboks non stavano meglio. Il loro rugby, per molti anni escluso dai grandi confronti internazionali, appariva datato. Tanto che l'ala più radicale dell'African National Congress voleva approfittarne per liquidarli. Non Mandela però. Il presidente con una lungimirante operazione politico-mediatica, cercò di conquistare la fiducia dei bianchi afrikaner salvandone il simbolo più caro: la nazionale di rugby. Diventò il primo tifoso dei verdeoro. E il 24 giugno, giorno della finale contro gli All Blacks, si presentò nel tempio della palla ovale, l'Ellis Parks di Johannesburg, indossando il cappellino dei "Boks" e la maglia numero 6 del biondo capitano boero François Pienaar, suo principale alleato nel processo di riconciliazione. Il presidente (interpretato da Morgan Freeman) e il capitano (Matt Damon) sotto lo slogan "una squadra, una nazione" predicarono il verbo del perdono e dell'unità nazionale. Pur con un solo nero in formazione, l'ala Chester Williams, e un rugby privo di genio, il Sudafrica trovò il modo di conquistare la coppa della fratellanza attingendo alla sua etica sportiva impastata di spirito di combattimento, rudezza, sofferenza fisica.
      Eastwood racconta con limpidezza il compromesso con il quale gli Springboks furono consacrati religione di patria, utilizzati per rispondere alla crisi di legittimità del governo democratico presso i bianchi. Un'operazione educativa e culturale celebrata ora da "Invictus" che contribuisce a fare di quegli eventi un luogo della memoria. Lo stadio che grida "Nelson, Nelson", Pienaar che alza la coppa, bianchi e neri abbracciati, i poliziotti che diventano buoni e issano sulle spalle in segno di festa un bambino della township.
      Come spesso accade, la storia scritta dai vincitori è molto diversa da quella raccontata dai vinti. In realtà molte ombre, ignorate dal film, si addensarono sul trionfo degli Springboks che in quel momento tutti desideravamo per motivi umanitari, compresi gli sconfitti. Ma come tacere di quanto accadde prima e durante la semifinale di Durban con la Francia? La misteriosa intossicazione alimentare che alla vigilia del match colpì dodici francesi, le due mete che il gallese Derek Bevan annullò inspiegabilmente a Galthié e Ntamack e quella che invece accordò senza la minima esitazione al sudafricano Kruger, che un paio di mesi dopo ammetterà di non averla segnata. Finì 19-15 per il Sudafrica. E ancora oggi Berbizier, poi diventato citì dell'Italia, si sveglia di notte con gli incubi per quella sconfitta: «Tutto era organizzato perchè il Sudafrica fosse campione» ha scritto nel suo libro "La vérité du terrain" pubblicato in Francia.
      Una convinzione rafforzata da quanto accadde nella drammatica finale. Con sospetta puntualità un'altra intossicazione alimentare colpì i neozelandesi 48 ore prima della partita decisa da un drop di Stransky ai tempi supplementari. Molti All Blacks, il dream team del momento forte del fenomeno Lomu, scesero in campo debilitati dal vomito e dalla diarrea. L'apertura Mehrtens, tra i più colpiti, non si reggeva in piedi e calciò fuori ben quattro drop. Wilson diede di stomaco sulla linea di touche e venne sostituito. Infine ci fu il clamoroso incidente al banchetto di chiusura della Coppa. Il presidente della federazione sudafricana Louis Luyt ringraziò pubblicamente l'arbitro Bevan, che aveva diretto gli Springboks anche nella vittoriosa partita contro l'Australia, e gli regalò un cronometro d'oro massiccio. Nella sala scese il gelo. Gli arbitri, escluso il premiato e l'inglese Morrison che aveva arbitrato la finale, abbandonarono indignati il banchetto, presto seguiti da giocatori e dirigenti di Nuova Zelanda, Francia e Inghilterra.
      Questi fatti non ebbero grande risalto allora. Nel rugby amatoriale l'arbitro faceva parte del gioco e nessuno si sognava di discutere il verdetto del campo. Un All Black non si sarebbe mai lamentato della dissenteria. Sarebbe stato disonorevole. Il codice morale imponeva di stare in campo anche morti. Inoltre le federazioni di Nuova Zelanda, Australia e Sudafrica avevano appena firmato un contratto decennale da 550 milioni di dollari con le televisioni di Murdoch che di fatto introduceva il professionismo. Da quel momento nulla sarebbe più stato come prima. Ma i veleni e i sospetti della coppa in Sudafrica appartenevano ormai a un'altra epoca.



 
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Un pezzo di Veneto

in campo nella finale

Tre giocatori sudafricani ed uno della Nuova Zelanda

hanno militato prima e dopo in squadre del Nordest

Ivan Malfatto

 



La finale di Coppa del Mondo 1995 fra

Sudafrica e Nuova Zelanda raccontata

da Clint Eastwood è anche un pezzo di

storia del Veneto. Rugbistica e sociale.

Perchè rugby e società da sempre

qui sono intimamente intrecciati. Non

a caso chi viene da fuori ha imparato a

etichettare quest'area geografica con

l'appellativo di "Galles d'Italia". Galles

terra ovale per antonomasia anche

nel cinema. Proprio lì è ambientato

"Io sono un campione" (The sporting

life, 1963) di Linsday Anderson, protagonista

un giovane Richard Harris,

unico altro film di livello internazionale

con il rugby sullo sfondo prima

dell'apparire sulle scena di "Invictus".

Tre Springboks eroi di quella partita

"fondativa" del Sudafrica multirazziale

hanno infatti militato in squadre

venete. Il terza linea Rudolf Straeuli,

entrato in campo nel secondo tempo e

non individuabile nel film, a Padova

con il Petrarca nel 1992/93. L'apertura

Joel Stransky, autore del drop

decisivo nell'emozionante scena finale

del match al rallentatore, lo stesso

anno a San Dona di Piave. L'ala e

unico nero della squadra Chester

Williams, idolo dei ragazzini durante

la scena dell'allenamento nella township,

nel 1997/98 a Casale sul Sile.

Squadra quest'ultima dove ha giocato

anche Zinzan Brooke, il numero 8

degli Ali Blacks sconfitti, proprio

nella stessa stagione di Stransky e

Straeuli. Un anticipo della sfida sui

campi veneti.

Questo fa capire come il Nordest di

quegli anni fosse terra d'approdo dei

più grandi giocatori al mondo. Nomi

tipo Joel, Naas o Cameron erano

pronunciati dagli appassionati come

un Toni, Bepe o Piero qualsiasi. Se

non addirittura venetizzati. Craig Ivan

Green, centro campione iridato 1987

con gli Ali Blacks, dopo aver militato

nel Benetton e sposato una trevigiana

è diventato per tutti Toni Green e

basta. E il suo dialetto con accento

neozelandese oggi non ha nulla da

invidiare a quello degli autoctoni.

Due i motivi sostanziali di questo

fenomeno "giocai" applicato

al Veneto ovale. Il primo

(valido per tutti i giocatori)

di natura economica. Il

rugby non era ancora uno

sport professionistico. Lo

diventerà solo dal '92. Nei

propri Paesi i big non percepivano

grossi compensi. I

campionati inglese, francese

e celtico non li attiravano

ancora a suon di denaro,

ma richiedevano comunque

un impegno importante.

L'Italia invece permetteva buoni

guadagni e la possibilità di tornare a

giocare nelle squadre d'origine durante

l'inverno australe. Ecco così Campese,

Lynagh, Botha, Stransky, Kirwan e

tanti altri ingrossare le file di un

piccolo esercito.

Il secondo motivo (valido solo per i

sudafricani) era di natura politica.

Verso il Sudafrica pre-apartheid esisteva

il boicottaggio sportivo mondiale.

Gli Springboks solo dal 1992/93

torneranno ad affrontare le altre nazionali

e il Mondiale '95 sarà la loro

consacrazione. Prima l'unico modo

per aggirare l'ostacolo per i singoli

atleti era misurarsi all'estero, in particolare

in Italia, con gli altri

big stranieri. Così il Veneto

diventa terra d'emigrazione

e Rovigo, in particolare,

colonia afrikaans anche per

il modello di gioco che privilegia:

aggressività, pacchetto

solido e buon calciatore.

Lo stesso degli Springboks.

La cultura razzista da cui

provengono questi campioni

resta sottotraccìa, pudicamente

nascosta dietro le

motivazioni sportive, ma si

percepisce. A Rovigo Naas

Botha, il Maradona del rugby sudafricano,

contesta dalla rubrica che tiene

sul "Gazzettino" la dedica del Pallone

d'oro 1987 Ruud Gullit a Nelson Mandela,

ancora prigioniero numero

46664 e non ancora presidente. Nessuno

s'indigna. Otto anni dopo, come

raccontato da Eastwood, tutto sarebbe

cambiato.
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