Il Napoli Rugby gioca con i ragazzi di Nisida.

Nel carcere minorile lo sport come metodo di rieducazione. E c’ è anche la squadra di volley, all’ inizio rifiutata come «disciplina da femmine» il Napoli rugby gioca con i ragazi di Nisida. “colpi duri ma rispetto, cosi’ cambia la vita”

(4 gennaio, 2007) Corriere della Sera

DAL NOSTRO INVIATO NAPOLI – Il professor Salierno, maestro di rugby, in napoletano dice «guagliò, voi il pallone dovete passarlo nelle mani del compagno, non sulle ginocchia o in faccia. E con la forza giusta».

I ragazzi guardano l’ovale, uno suggerisce all’ amico: «E tu pensa che è un orologio». L’ allenamento riprende: corse, scontri, placcaggi. L’ esperimento va avanti dal novembre 2005, quando un gruppo di giocatori dell’ Amatori Cus Napoli, campionato di serie C, ha cominciato a insegnare il rugby ai detenuti di Nisida. Alcuni dei giovani chiusi nell’ istituto minorile di Napoli, assicurano gli atleti, questo sport ce l’ hanno nel sangue. Dicono che è «un fatto di giusta cazzimma»: misto di cattiveria, agonismo, prontezza e napoletanità. Loro lo sanno, perché sono uguali ai ragazzi finiti dentro. Si chiamano Rudi, Dario, Enzo, Tonino «’ o chiattone», c’ è Stefano che ha giocato in serie A, e poi in Argentina e Nuova Zelanda. Vengono dalle stesse strade di chi è chiuso a Nisida, ora giocano assieme. Dalle celle scendono al campetto detenuti-ragazzini: pochi peli di barba, corpi nervosi, gli occhi che non stanno mai fermi. Sono giovani che hanno sofferto e provocato dolore, alcuni hanno fatto i delinquenti sul serio e ora pagano un prezzo alto. Uno di loro a fine partita va alla fontana per buttare acqua sulle abrasioni e domanda: «Ma i campi da rugby sono così?». Non proprio: hanno l’ erba e, sotto, la terra morbida. Eppure questo prato sintetico c’ è chi ormai ha preso a chiamarlo Twickenham, come lo stadio dei campioni del mondo inglesi.

All’ inizio il direttore dell’ istituto, Gianluca Guida, era un po’ allarmato: «Ragazzi, mi raccomando! Stasera di turno c’ è solo un infermiere». Ma nel corso del primo anno gli unici a farsi male sono stati i rugbisti veri: in tre si sono rotti le ossa, sempre contro la testa dura di un detenuto esile ma portato per il contatto. Scontata la pena, quel giovane è uscito e ha trovato lavoro in un bar. Lì lo ha recuperato Enzo Jorio, tecnico dell’ Amatori: «Vuoi giocare con noi?». Oggi il ragazzo è tesserato nell’ under 19 della società napoletana e si allena con la prima squadra su un terreno da calcio ad Agnano, visto che l’ Amatori un campo suo non ce l’ ha. Jorio ha passato la vita tra il rugby e un lavoro all’ Italsider di Bagnoli: ogni giorno vedeva il profilo dell’ isola-carcere e sognava di portare il rugby lì dentro. «Perché è uno sport sociale – dice – che ti cambia».

A chi è stato rinchiuso per aver violato le regole, Enzo voleva insegnare una disciplina dove si combatte rispettando arbitro e avversari, il vincente aspetta lo sconfitto all’uscita dal campo e lo applaude, e a fine partita le due squadre mangiano assieme.

Ce l’ ha fatta: un mese e mezzo fa è cominciata la seconda stagione di rugby dietro le sbarre. Stavolta a presentarla c’erano tecnici federali con la tuta della Nazionale. Hanno portato un buono per l’ acquisto di maglie e palloni. Hanno spiegato ai ragazzi che «non conta vincere, ma portare avanti la palla. E questo nessuno può farlo da solo, senza il sostegno dei compagni». Hanno parlato di «rispetto, ma nel contatto fisico». Poi tutti in campo a giocare. Il sogno di Jorio che diventa realtà.

Del resto, quest’ isola ha qualcosa di onirico. Il direttore cammina tra le testimonianze dei tempi d’ oro: il murale disegnato da Hugo Pratt, le foto di quando Edoardo De Filippo veniva qui a fare teatro. Parla dell’ istituto: muri e cortili di una «struttura» che è nata per contenere, custodire, e fa sentire prigionieri perché non può essere diversamente. I ragazzi dormono dietro porte di ferro dipinte di rosso, con enormi serrature e piccole feritoie. In celle piene di immagini di Padre Pio, foto di macchine e moto, flaconi di detersivo e docciaschiuma. «Pochi di loro – spiega Guida – vedono nelle attività che facciamo qui qualcosa che può accompagnarli a una vita diversa. Ma quando lavori con i minori non guardi ai numeri».

Strappare alla criminalità i giovani di Napoli, anche solo qualcuno, è la sua scommessa. La rinnova ogni mattina, qualche volta la vince. Assieme agli uomini del Dap, che sono quasi tutti senza divisa; al cuoco, zio Peppe, che sta qui da 28 anni e quando può si porta a casa i ragazzi in permesso; a chi viene a insegnare lo sport.

Discipline «minori», ma considerate più formative. L’ anno scorso di calcio si è parlato solo al corso arbitri organizzato dalla Figc: a presentarlo era venuto Gigi Agnolin. In compenso i detenuti sono andati in barca a vela, grazie all’ impegno di uno skipper e una psicologa e ai soldi dei coniugi Gioia, che ricordano così loro figlio Roberto, velista morto in un incidente. «Noi i fondi per tutto questo non li avremmo – dice Guida -. Il merito è di Napoli: Nisida è un quartiere della città e i napoletani guardano quello che succede qui dentro».

Come Piero Versaci, che ha fondato una squadra di pallavolo. Lo «sport dei fimmine», gli hanno detto schifati i detenuti all’ inizio. Lui ha resistito e ha creato il «Nisida Dream Team». Nel 2005 hanno fatto il torneo Csi, giocando tutte le partite in casa, nel campo aperto vicino al grande portone metallico. Quando il tifo montava, agenti, recluse della sezione femminile, educatori, impiegati, cominciavano a urlare insieme «Ni-si-da», «Ni-si-da». Dicono mettesse i brividi.

450 I giovani detenuti. Da Roma in su, la maggioranza è composta da immigrati, che nelle regioni del Nord raggiungono il 90% (quasi tutti rom e maghrebini) . 18 *** Gli istituti penali per minori sparsi per l’ Italia. Soltanto 4 hanno una sezione femminile: Roma, Milano, Torino e Nisida

*** Porqueddu Mario

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *